L’assistente materna si affaccia e scompare rapidamente, ma alle esigenze si fatica a dare risposta
I primi tempi da genitore sono duri. C’è la stanchezza, lo stravolgimento dei ritmi di vita, e ci sono i dubbi e le incertezze su come far fronte al meglio ai bisogni di chi è appena venuto al mondo e dipende completamente da noi.
Non a caso, la tradizione popolare prima e il servizio sanitario poi, hanno previsto delle figure di riferimento, esterne alle famiglie, per supportare le donne durante il parto e i neogenitori nei primi mesi dalla nascita.
Sembrava rispondere alle stesse necessità l’idea del Governo di istituire una nuova figura professionale, quella dell’assistente materna, che intervenga telefonicamente o a domicilio a sostegno delle madri nei primi sei mesi dopo il parto e che sia in grado di identificare eventuali situazioni di fragilità, anche legate all’insorgere di casi di depressione post-partum.
Tuttavia, l’idea per il momento non si è tradotta in proposte concrete e ciò che si è discusso finora è legato a quanto anticipato dalle testate giornalistiche a partire dalla notizia di Ansa del 27 settembre scorso. Come commenta efficacemente Viola Giannoni su Repubblica la nuova figura professionale dell’assistente materna «non ha fatto in tempo a vedere la luce che si è già incagliata in un fondale di contrarietà», e un po’ sconcerta che per l’ennesima volta ci si trovi a discutere non su proposte concrete, ma su idee annunciate e poi lasciate nel vago.
È interessante guardare alle reazioni che la notizia ha suscitato sui social network. Commenti che mostrano una crescente sensibilità verso i discorsi intorno alla genitorialità e che esprimono il bisogno di misure che la affrontino a 360 gradi. Ci sono moltissimi riferimenti all’inadeguatezza dei congedi di paternità e al bisogno di implementare servizi a supporto dei genitori, come gli asili nido. Ma, al di là dei commenti alla proposta, il tema del sostegno da parte di figure professionali nei primissimi mesi di vita rimane di interesse a prescindere dall’implementazione di ulteriori misure – come i congedi e gli asili nido – che pure sono indispensabili per favorire la genitorialità partecipe di entrambi i partner e il contrasto alla denatalità.
Come mostra una metanalisi Cochrane del 2017, l’assistenza personalizzata attraverso visite a domicilio nel periodo perinatale ha diversi benefici: può avere impatti positivi sull’incidenza di depressione post-partum, può migliorare i tassi di allattamento esclusivo al seno, riduce gli interventi in emergenza e urgenza neonatali, e aiuta a una rapida soluzione delle paure e delle preoccupazioni delle madri in questa fase.
Il nostro servizio sanitario nazionale prevede la figura dell’ostetrica a domicilio, cui sono già affidati, almeno in parte, quelli che sembrano essere i compiti della nascente figura dell’assistente materna. Ma la disponibilità delle ostetriche a domicilio risulta limitata e frammentaria, dipendendo dall’organizzazione e, soprattutto, dalle risorse delle singole ASL. Una delle prime osservazioni critiche all’annuncio del Governo è proprio legata alla sovrapposizione di competenze con quelle di ostetriche e ostetrici. Soprattutto perché la futura assistente materna non condividerebbe la formazione accademica di ostetriche e ostetrici, perché le sarebbe richiesto un percorso di formazione post-diploma di soli sei o nove mesi.
Inoltre, non si può ignorare che questa nuova figura, che dovrebbe essere ancorata al territorio e di supporto alle famiglie, si andrebbe a inserire in una realtà che ha visto via via impoverirsi l’offerta dei consultori che avrebbero lo stesso ruolo e che sono invece sempre meno presenti e sempre meno forniti del personale di cui necessitano, soprattutto di ostetricia.
D’altra parte, dal 2006 l’Organizzazione mondiale della sanità promuove l’Home visiting, una metodologia di intervento per le famiglie realizzata a domicilio e svolta prevalentemente nel periodo perinatale o prescolastico, con strumenti e regole ben codificati.
Nata nel diciannovesimo secolo in Inghilterra, e poi espansa nel resto d’Europa, l’Home visiting assume sfumature diverse nelle esperienze dei servizi socio-sanitari dei differenti paesi, in base agli obiettivi sui cui pone l’accento: la prevenzione di malattie, il contrasto ai maltrattamenti su minori, il miglioramento nell’accesso ai servizi, la formazione dei neogenitori. Qualunque sia l’obiettivo preminente, perché tali programmi funzionino è necessario che si coinvolga uno staff ampio, si creino protocolli appropriati, siano supervisionati e finanziati adeguatamente.
In Italia, l’Home visiting è citata nei Piani Regionali di Prevenzione (come quello del Lazio) come strumento per prevenire il rischio di insorgenza di depressione post-partum, ma si ritrova anche nel documento di indirizzo per le azioni e strategie nei primi mille giorni di vita, pubblicato nel 2020 dal Ministero della Salute come approccio promettente per ridurre le disuguaglianze precoci in salute.
A livello locale le esperienze sono molteplici, spesso rivolte a specifiche categorie a rischio. Si veda, per esempio, quella dell’ASL Napoli 3 Sud che, in un insieme integrato di iniziative volte a contrastare le disuguaglianze di salute nei primi mille giorni di vita, e in collaborazione con la rete dei consultori, SERT, Medici di medicina generale, associazioni di mediazione linguistica culturale e Dipartimenti di salute mentale, ha istituito misure di sostegno domiciliare di tipo ostetrico-infermieristico. Ispirato ai principi dell’Home visiting è l’intervento del progetto Fiocchi in Ospedale di Bari di Save the Children.
L’idea del Governo si cala, dunque, in un contesto di attori e iniziative tutt’altro che scarno e che da tempo richiede, da una parte, una maggiore integrazione delle reti che applicano l’Home visiting, dall’altra, le dotazioni finanziarie e di personale perché queste misure possano essere applicate in maniera universale: su tutto il territorio e rivolte a tutte e tutti, senza la definizione a-priori di categorie a rischio.
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