Bambini che giocano con le bambole

da | Feb 12, 2024

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Gli stereotipi di genere si formano prestissimo negli atteggiamenti di bambine e bambini, a partire dalle aspettative sociali e dai modelli proposti dalle persone adulte che hanno vicine. Lo mostra bene già nel 2017 un esperimento comunicativo della BBC. Oggi si può e si deve fare di più.

 

Prima scena: «Guarda Sophie! Guarda questa!» Una signora seduta su un tappeto porge una bambola rosa a una bimba bionda con un abitino a fiori. La piccola allunga la mano. Intorno a loro c’è una scelta di pupazzi, giochi a incastro, costruzioni, un triciclo rosso e un cavalluccio a dondolo. Seconda scena: sullo stesso tappeto, una giovane intrattiene un bambino con pantaloni e camicia a quadri blu. Lo solleva e lo mette a cavalcioni del triciclo «Dai Oliver! Vrum vrum! Bip bip!», poi passano al cavalluccio a dondolo. Poco dopo, Javid Abdelmoneim, medico britannico e presentatore di programmi sulla salute della BBC si rivolge alle due donne. «Se le dicessi che Sophie in realtà si chiama Edward?», «Se le svelassi che Oliver si chiama Marnie?»

Il piccolo esperimento proposto al pubblico del canale BBC2 nel 2017 e accessibile su Youtube consiste nel vestire Edward con abiti femminili e Marnie con abiti maschili e coinvolgere adulti inconsapevoli incaricati di intrattenere i piccoli, di circa un anno d’età, con un assortimento di oggetti, alcuni tradizionalmente considerati giocattoli da bambino e altri da bambina. I due bimbi si comportano in modo prevedibile: un po’ intimiditi, ma divertiti, afferrano volentieri qualunque forma colorata entri nel loro campo visivo. Il comportamento interessante è quello dei volontari adulti, che offrono bambole e pupazzi morbidi alla presunta Sophie e robot, giochi a incastro, il triciclo e il cavalluccio al presunto Oliver e, quando scoprono il trucco, si stupiscono loro stessi delle scelte fatte. «Non pensavo di avere pregiudizi di questo tipo, è stato il mio subconscio a orientarmi», commentano al momento della rivelazione.

Alle bambine l’empatia, ai bambini la competizione

Uno degli stereotipi di genere più radicati nella nostra società è che le femmine abbiano una predisposizione innata a prendersi cura degli altri e ad accogliere empaticamente, mentre i maschi sarebbero innatamente portati alla competizione, al controllo dei sentimenti, alla fredda efficienza, una differenza che si concretizza più avanti negli anni nella rigida divisione dei ruoli familiari. Con la sua messa in scena, Abdelmoneim ci mostra che queste inclinazioni sono indotte precocemente nei bambini e nelle bambine dall’approccio degli adulti che si occupano di loro, dalla scelta dei giocattoli indirizzati a maschi e femmine. Ci mostra che spesso gli adulti ne sono inconsapevoli e si limitano a riproporre senza riflettere i condizionamenti culturali che loro stessi hanno ricevuto.

Il condizionamento precoce attecchisce rapidamente, come appare evidente dal seguito del documentario, in cui il presentatore lavora con una classe di alunni e alunne di sette anni. Hanno già ben chiaro quello che la società di aspetta da loro e lo considerano naturale. Dopo alcune settimane in cui Abdelmoneim propone a tutti, indipendentemente dal genere, gli stessi giochi e le stesse attività, il cambiamento comincia a farsi strada e sul finale del documentario una mamma commenta soddisfatta che suo figlio è diventato molto più empatico.

L’empatia non ha genere

Bambini e bambine nascono entrambi con una forte predisposizione alla socializzazione (vedi anche questo studio). La loro sopravvivenza dipende letteralmente dalla possibilità di stabilire un rapporto di attaccamento con le persone adulte che si prendono cura di loro. Fin dai primi giorni di vita cercano lo sguardo dei genitori, rispondono ai loro stimoli e si impegnano a catturarne l’attenzione. Crescendo, entrambi sono attratti dalle bambole, su cui riproducono i gesti di cura che l’universo adulto riserva a loro. L’abitudine di separare attività e giocattoli in maschili e femminili comincia in famiglia, per poi proseguire al nido e nella scuola dell’infanzia e infine si struttura col passare degli anni. Negli ultimi tempi si è fatta ancor più netta per motivi commerciali: le aziende producono giocattoli e accessori per l’infanzia di colori diversi, con la prevalenza del rosa per le femmine e del blu per i maschi, i negozi distinguono reparti per bambini e reparti per bambine, cataloghi destinati all’uno o all’altro genere. Anche i programmi televisivi sono spesso differenziati e le pubblicità dei prodotti vengono inserite nel programma corrispondente. Così l’incomunicabilità viene esasperata e ciascuno dei due generi non entra neppure in contatto con quelli che si ritiene siano giochi adatti all’altro.

Tutti questi fattori contribuiscono a costruire un’immagine standard del bambino e della bambina che riflette le aspettative sociali nei loro confronti. I piccoli che non si adeguano sono percepiti come anomalie dai loro stessi pari. Le conquiste di parità tra i generi acquisite negli ultimi decenni fanno sì che oggi la pressione sociale nei confronti delle bambine che utilizzano giocattoli o svolgono attività considerate maschili è minore rispetto alla pressione sociale esercitata nei confronti dei maschi interessati ai giochi cosiddetti femminili: passi la piccola che gioca con il trenino, ma il bimbo che culla il bambolotto ancora è considerato proprio stonato.

Le conseguenze si riflettono sia nel campo lavorativo, sia nella vita familiare. Non solo c’è una netta minoranza di donne impegnate negli ambiti professionali tradizionalmente considerati maschili, ma scarseggiano gli uomini nei settori ritenuti più femminili, in particolare quello della cura delle persone. Le educatrici sono in numero preponderante rispetto agli educatori dell’infanzia, così pure le insegnanti rispetto ai colleghi maschi. Assistenti sociali, caregiver di anziani e persone disabili, personale sanitario sono lavori in cui la presenza femminile supera di gran lunga quella maschile. Nella vita familiare, ancora oggi il lavoro di cura della casa, delle persone e in particolare dei figli poggia in modo asimmetrico sulle spalle delle donne e, in un circolo vizioso difficile da arrestare, il valore di queste incombenze viene sminuito.

Che cosa si può fare

La consapevolezza di quanto sia importante e, ormai, necessario intervenire con azioni volte a decostruire gli stereotipi di genere sostiene la realtà di progetti come 4e-parent cui l’Unione Europea dedica risorse. E, altrettanto, appaiono incoraggianti altre iniziative europee.

Lo stesso Consiglio d’Europa è fortemente consapevole dell’impatto negativo degli stereotipi di genere nell’educazione dell’infanzia, dell’importanza di demolirli per creare una nuova società in cui ciascun individuo, indipendentemente dal genere di appartenenza, abbia la possibilità di seguire le proprie aspirazioni e mettere a frutto le proprie competenze in campo professionale e nella vita privata. Il documento “Combating gender stereotypes and sexism in and through education” riassume le strategie promosse dalle istituzioni europee negli ultimi anni e messe in atto nei singoli Stati membri per perseguire questi scopi.

Particolarmente importanti sono le iniziative dedicate alla formazione del personale scolastico. In questo ambito rientra il manuale “Mind the Gap. Costruire l’uguaglianza di genere in ambito educativo”, redatto nell’ambito di un progetto europeo tra il 2021 e il 2022 da un consorzio di partner attivi in Italia, Spagna e Portogallo, coordinati dall’Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo (AIDOS). Il manuale raccoglie informazioni, spunti di riflessione e di autoanalisi e suggerimenti di attività educative per far emergere alla consapevolezza e decostruire gli stereotipi di genere.

«È indirizzato al personale della scuola primaria e secondaria e la sua pubblicazione è stata accompagnata da una serie di formazioni, che abbiamo tenuto di persona e da remoto a causa della pandemia, coinvolgendo nei tre Paesi quasi duemila insegnanti di scuola, educatori ed educatrici di sistemi non formali e studenti di corsi di laurea di Scienze dell’Educazione e della Formazione», spiega Valentina Fanelli, responsabile progetti di AIDOS. «Abbiamo riscontrato un grande interesse per questi temi e impegno a promuovere un cambiamento concreto. Alunni e alunne delle primarie e ancor più delle secondarie hanno un’età per cui sono già stati esposti per anni a una cultura intrisa di pregiudizi di genere. Il lavoro che il corpo insegnante è tenuto a fare in questo caso è di decostruzione di schemi mentali già formati. Alcuni contenuti del nostro manuale possono risultare utili anche a chi si occupa della prima infanzia nei nidi e nella scuola materna, anche se non sono pensati espressamente per loro. Un aspetto molto importante del lavoro di formazione che abbiamo svolto, e che riguarda chiunque, indipendentemente da ordine e grado della scuola dove opera, è la consapevolezza degli stereotipi che abbiamo interiorizzato. Ognuna e ognuno di noi, anche le persone più aperte e attente, è influenzato da idee preconcette, di cui a volte non siamo neanche consapevoli, che condizionano le nostre azioni e i nostri rapporti. Non è facile rendercene conto e non è facile ammetterlo. Portare alla luce questi automatismi è il primo passo essenziale per evitare di trasmetterli a piccoli e piccole».

 

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