Papà ammessi con fatica, magari solo a partire dall’ultima fase del travaglio, o addirittura esclusi. Per un uomo prendere parte al travaglio e al parto, in accordo con la propria compagna, rimane tuttora una conquista e, se possibile, le cose sono addirittura peggiorate con l’arrivo di SARS-CoV-2.
Agli esordi della pandemia, infatti, nei primi mesi del 2020, si sapeva poco o nulla delle modalità di trasmissione del virus SARS-CoV-2, in particolare della trasmissione da madre a figlio o figlia in gravidanza, durante il parto e l’allattamento. Le strutture ospedaliere erano aree a maggior rischio di contagio, i dispositivi di protezione individuali per il personale sanitario e per le persone ricoverate scarseggiavano, non erano disponibili test rapidi per la diagnosi dell’infezione, le esigenze di isolamento e distanziamento creavano disagi organizzativi. Le coppie che si sono trovate a portare a termine una gravidanza in quel periodo hanno vissuto situazioni molto stressanti. Per precauzione molti punti nascita hanno adottato misure fortemente restrittive: i neonati e le neonate sono state allontanate dalle madri subito dopo il parto, senza possibilità di contatto pelle a pelle e avvio precoce dell’allattamento, la pratica del rooming in è stata in alcuni casi sospesa, vietato l’accesso ai familiari in visita e i padri sono stati considerati come semplici visitatori, anziché curanti o caregiver, ed esclusi dalla sala parto.
Lo studio
A marzo del 2019, prima che l’infezione dilagasse, in media in alcune regioni il padre era presente nel 59% dei parti. Nel mese di aprile del 2020, nel pieno della prima ondata pandemica, la percentuale era calata al 50%, secondo uno studio sui flussi di dati correnti (CeDAP) recentemente pubblicato sulla rivista Epidemiologia & Prevenzione. «Una reazione di estrema precauzione era comprensibile all’epoca, considerato il caos e la scarsità di informazioni delle prime fasi della pandemia», osserva Angela Giusti, ricercatrice del Centro nazionale prevenzione delle malattie e promozione della salute dell’Istituto Superiore di Sanità (CNAPPS-ISS), referente scientifica del Progetto 4e-parent e coautrice dello studio. «Già a partire dal mese di maggio del 2020, però, le conoscenze acquisite dalla comunità scientifica hanno consentito alle autorità internazionali e nazionali, tra cui l’Istituto Superiore di Sanità, di pubblicare raccomandazioni sull’assistenza alla gravidanza, al travaglio e al parto e sulla cura dei piccolissimi e delle piccolissime, raccomandazioni che ribadivano i vantaggi del contatto pelle a pelle tra madre e neonato o neonata, dell’avvio precoce dell’allattamento e della presenza di una persona di fiducia accanto alla partoriente durante il travaglio e il parto. Ciò nonostante, al 31 marzo del 2021, data conclusiva dell’analisi che abbiamo pubblicato, la presenza dei padri in sala parto non era tornata ai livelli pre-pandemici. Dovremmo esaminare dati più recenti per sapere che cosa è successo in seguito», continua Giusti.
Un progresso ancora incompleto
Da tempo l’Organizzazione Mondiale della Sanità e le società scientifiche del settore riconoscono i benefici della presenza in sala parto di una persona di fiducia della partoriente, soprattutto se questa persona è il padre: benefici a vantaggio del bambino o della bambina, di entrambi i genitori e del loro rapporto di coppia. Nel corso dei decenni, questa pratica si è progressivamente diffusa in Italia, ma non è stata recepita in modo uniforme su tutto il territorio nazionale e le sue modalità di applicazione possono cambiare da una struttura all’altra. Lo studio si basa sulle informazioni trasmesse da sei Regioni: Lombardia, Piemonte, Veneto, Toscana, Campania e Provincia Autonoma di Trento. A marzo del 2019, a fronte della media tra le regioni del 59%, le percentuali regionali dei padri presenti in sala parto variavano dall’85,1% della Provincia Autonoma di Trento al 30% della Campania. Nel pieno della prima ondata pandemica, la percentuale in Campania è scesa quasi a zero.
«Inoltre, non sempre i padri venivano ammessi a stare con la partner fin dall’inizio del travaglio», aggiunge Francesca Zambri, ricercatrice del CNAPPS-ISS e coautrice della pubblicazione. «I dati su cui abbiamo lavorato provengono dai Certificati di Assistenza al Parto compilati dal personale sanitario, che riportano il padre come presente anche nei casi in cui gli viene consentito di entrare solo nell’ultima fase, per assistere alla nascita, non prima. Non abbiamo modo di distinguere le due diverse situazioni, ma dai racconti raccolti sul campo sappiamo che, soprattutto durante la pandemia, molti punti nascita hanno adottato questa pratica».
L’ingresso del padre in sala parto solo quando il travaglio è già in fase espulsiva priva la partoriente del suo sostegno nelle lunghe ore precedenti e può essere controproducente per lui stesso. «Non ha l’opportunità di prepararsi alla nascita insieme alla partner in un ambiente intimo e raccolto. Se la trova davanti all’improvviso sofferente, circondata dal personale sanitario, in un momento di grande concitazione e non può esserle di grande aiuto, può solo assistere passivamente», spiega Giusti.
Pregiudizi da contrastare
Dopo i primi mesi di pandemia, è apparso evidente che il rischio di trasmissione del virus da madre al figlio o alla figlia nel corso del parto e le conseguenze per la sua salute nell’eventualità di contagio non giustificavano drastiche misure precauzionali come separare le madri dai propri figli o figlie o vietare l’accesso di una persona di fiducia della donna in sala parto. Le raccomandazioni pubblicate dall’ISS a maggio del 2020 e aggiornate poi nel febbraio del 2021 stabilivano quindi che fosse garantita la presenza di una persona di fiducia, asintomatica, accanto alla donna durante tutto il travaglio, il parto e la permanenza in ospedale. «Questa persona è a tutti gli effetti un caregiver e non un visitatore», si legge nel documento.
Nonostante fossero molto chiare, queste indicazioni non sono sempre state applicate e tanti ospedali hanno continuato a escludere i padri dalla sala parto lasciando, di fatto, le donne da sole. Diversi fattori hanno condizionato la risposta delle strutture alle raccomandazioni dell’ISS: la riluttanza della dirigenza, le preoccupazioni per la sicurezza del personale, la rigidità dei protocolli di assistenza, i vincoli logistici. «Parlando con il personale, abbiamo potuto riscontrare la persistenza di alcuni pregiudizi nei confronti dei padri in sala parto: che siano impressionabili, di scarso aiuto e anzi di intralcio al lavoro», continua Angela Giusti. «Ovviamente, non è affatto vero e gli ospedali che aderiscono all’iniziativa dell’Unicef Ospedali Amici delle Bambine e dei Bambini ne sono la prova: anche durante la pandemia si sono impegnati a rispettare la fisiologia della nascita, a soddisfare le esigenze delle partorienti e a incoraggiare la partecipazione dei padri al travaglio e al parto, con ottimi risultati. Per trarre il massimo beneficio dalla presenza dei padri bisogna creare le condizioni giuste per il loro coinvolgimento: informarli e rispondere alle loro domande, rispettare l’intimità della coppia, interferire il meno possibile, considerarli dei caregiver e non dei visitatori. Le strutture che mettono in atto questi accorgimenti sperimentano e riconoscono i vantaggi della presenza dei futuri papà in sala parto» completa Giusti.
Un’esperienza di forte impatto
La donna che non può fare affidamento su un caregiver dedicato sperimenta una situazione di isolamento sociale che di certo non giova al suo benessere e la espone a un maggior rischio di ansia e depressione post partum.
La condivisione del travaglio e del parto con la propria partner è un’esperienza di forte impatto emotivo anche per i padri. Quelli intervistati da un gruppo di ricerca tedesco l’hanno descritta come un momento di svolta della loro vita relazionale, determinante per la loro identità di genitori. La maggior parte di loro ha riferito che la possibilità di aiutare e dare conforto alla partner durante il travaglio ha rafforzato l’intesa di coppia. Solo una piccola percentuale ha riportato un vissuto di stress e senso di impotenza di fronte alla sofferenza della compagna.
Un altro gruppo, britannico, ha raccolto i racconti di padri privati di questa esperienza a causa delle limitazioni imposte durante la pandemia. Hanno vissuto l’esclusione con rammarico per la perdita di memorie preziose, senso di isolamento, inutilità, distacco dalla gravidanza e timore di non riuscire a stabilire un legame di attaccamento saldo con il neonato o la neonata al rientro dall’ospedale.
La circostanza della pandemia ha messo in luce con più evidenza quanto sia importante un’assistenza alla nascita rispettosa del benessere emotivo di tutte le persone coinvolte e inclusiva nei confronti dei padri.
Bibliografia
1. F. Zambri, A. M. Nannavecchia et al., “Breastfeeding and presence of the companion of woman’s choice during COVID-19 pandemic in Italy: regional population-based routine data and best practices at birth”, Epidemiologia & Prevenzione, 47 (2023), pp: 263-272
2. Rapporto ISS COVID-19 n. 2/2021, “Indicazioni ad interim per gravidanza, parto, allattamento e cura dei piccolissimi di 0-2 anni in risposta all’emergenza COVID-19”, 5 febbraio 2021
3. A. Giusti, E. M. Chapin et al., “Prevalence of breastfeeding and birth practices during the first wave of the COVID-19 pandemic within the Italian Baby- Friendly Hospital network. What have we learned?”, Annali dell’Istituto Superiore di Sanità, 58 (2022), pp: 100-108
4. L. C. Vischer, X. Heun et al., “Birth experience from the perspective of the fathers”, Archives of Gynecology and Obstetrics, 302 (2020), p: 1297-1303
5. K. Andrews, S. Ayers et al., “The experience of fathers during the covid-19 UK maternity care restrictions”, Midwifery, 113 (2022), https://doi.org/10.1016/j.midw.2022.103434
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