L’Italia è uno dei pochi paesi UE a non avere istituito programmi scolastici obbligatori di educazione all’affettività e contro le discriminazioni e la violenza di genere, benché la legge lo preveda. L’attuazione delle indicazioni è lasciata alla buona volontà di insegnanti e dirigenti della scuola, mentre non c’è una programmazione organica che affronti questi temi in funzione preventiva, iniziando con le classi di minore età, da dove è cruciale partire.
Le donne hanno una predisposizione naturale per la cura delle persone, gli uomini sono più portati per la competizione. Ecco perché spetta alle donne assistere bambini, anziani e fragili, in famiglia e nella società, mentre gli uomini sono inadatti e sprecati per queste mansioni. Si tratta, ovviamente, di uno stereotipo, ben radicato nella nostra cultura e dannoso per tutte le parti in gioco, perché limita le scelte di realizzazione personale e priva la società e le famiglie di risorse preziose. È uno stereotipo che viene inculcato fin dalla più tenera età, spesso involontariamente, con la proposta di modelli discriminanti, talvolta anche nei nidi e nelle scuole dell’infanzia, che sarebbero invece la sede ideale dove attuare dei programmi di decostruzione degli stereotipi e offrire un’educazione basata sulla parità di genere.
Un compito lasciato alle associazioni
L’Italia è uno dei pochi Paesi dell’Unione Europea a non avere istituito programmi scolastici obbligatori di educazione all’affettività, contro le discriminazioni e la violenza di genere. Tuttavia, la normativa non ignora la questione. La cosiddetta “legge della buona scuola”, la n.107 del 2015, prevede testualmente che nelle scuole di ogni ordine e grado vengano promosse “l’educazione alla parità dei sessi e la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni”.
«L’attuazione di queste indicazioni, però, viene lasciata alla buona volontà di singoli insegnanti, educatrici o educatori che mostrano al riguardo una maggiore sensibilità», osserva Elena Fierli, esperta di editoria per l’infanzia che fa parte dell’Associazione Scosse e collabora con l’Associazione Nazionale Educare alle Differenze, una rete che collega diverse organizzazioni impegnate su tutto il territorio italiano.
«Dal momento che nella programmazione scolastica non sono previsti spazi specifici da dedicare all’educazione affettiva e al rispetto delle differenze, spesso questi temi vengono affrontati nell’ambito di attività organizzate da enti e associazioni esterni alla scuola. Talvolta è la dirigenza stessa, su proposta di qualche insegnante, a contattare un’associazione sul territorio e pagare l’attività con i propri fondi. Talvolta invece le associazioni partecipano a bandi organizzati dal Ministero, dalle Regioni o dai Comuni. Di solito si tratta di bandi per il contrasto della violenza, del bullismo, oppure per la promozione della lettura nelle scuole. È raro che siano esplicitamente dedicati alla promozione dell’educazione al genere e alla lotta agli stereotipi, ma sono comunque una via d’accesso per introdurre questi temi. Va detto poi che spesso queste attività sono richieste nelle scuole secondarie o zone socialmente più fragili, dove si lavora per porre rimedio a situazioni già compromesse: stereotipi diffusi e già ben radicati, episodi di bullismo e atmosfera discriminatoria. È importante agire in questi casi, ovviamente, ma la questione dovrebbe essere affrontata in un’ottica di prevenzione e cambiamento culturale con i più piccoli, nella fascia 0-6 anni».
Che risposta c’è da parte delle famiglie a questo tipo di attività nelle scuole? «Se i genitori degli alunni manifestano qualche perplessità nei confronti dei programmi proposti, di solito si organizza un incontro con le famiglie per illustrare gli scopi e i metodi», spiega Fierli. «Nella maggior parte dei casi, facendo chiarezza i dubbi si dissolvono. Ci sono poi alcune famiglie che per ragioni politiche e culturali si oppongono all’educazione sul rispetto delle differenze di genere nelle scuole in maniera pregiudiziale, senza neppure conoscere i programmi. Sono poche, ma ben organizzate: hanno anche dei siti da cui possono scaricare modelli di lettere di diffida alla dirigenza della scuola. Sono una minoranza».
Ai più piccoli serve l’esempio
La fascia d’età da 0 a 6 anni, quella su cui il lavoro di educazione alla parità di genere sarebbe più proficuo, è di fatto la più trascurata da questo punto di vista nel nostro Paese.
«A bimbe e bimbi così piccoli non servono tanti discorsi e spiegazioni: hanno bisogno di buoni esempi e di rispetto della loro apertura mentale, perché dai loro giochi e dalle loro narrazioni è evidente che non hanno pregiudizi innati», osserva Daniele Chitti, ex dirigente dei servizi 0-6 del Comune di Imola e consigliere del Gruppo Nazionale di Studio Nidi e Infanzia. «Ci vorrebbe innanzi tutto una presenza significativa maschile tra gli educatori dei nidi e delle scuole dell’infanzia, per offrire a bambini e bambine un modello maschile accudente al di fuori di quelli che trovano nella propria famiglia. Purtroppo in questo ambito il personale è quasi tutto femminile: una conseguenza degli stessi stereotipi che vogliamo combattere. Si potrebbero allora coinvolgere i padri di piccoli e piccole nelle attività delle scuole. E bisognerebbe lavorare sulla formazione di chi opera nei nidi e nelle scuole dell’infanzia, perché spesso è carente su questi temi e l’aggiornamento è lasciato alla sensibilità personale. Per quanto riguarda l’intervento di associazioni esterne, dipende molto da quello che offre il territorio ed è variabile nelle diverse Regioni».
Anche l’atteggiamento delle famiglie nei confronti dell’educazione al rispetto di genere varia in funzione del contesto sociale locale. «Nei piccoli centri, dove vige una mentalità più tradizionale e c’è resistenza nei confronti delle novità, si incontra una maggiore diffidenza. Alcuni genitori temono che la decostruzione degli stereotipi sia un modo per incoraggiare l’omosessualità di bambini e bambine», dice lo psicologo, «e che le scuole li privino del diritto di trasmettere i propri valori culturali a figli e figlie. Si tratta ovviamente di timori infondati, su cui bisognerà lavorare per arrivare a un profondo cambiamento culturale».
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